
Trasferirsi oltre confine non significa soltanto cambiare indirizzo: vuol dire ridefinire la propria identità, affrontare nuovi inizi e imparare a sentirsi “a casa” ovunque ci si trovi. Per Roberta Maretti, autrice di Where the World Took Me, la vita da espatriata è iniziata da adolescente a Tokyo ed è presto diventata un percorso che l'ha portata attraverso continenti e culture, reinventandosi più volte. Dalla crescita dei figli in Asia e nei Caraibi al ritorno in Europa dopo molti anni all'estero, la sua è una storia di resilienza, curiosità e ricerca di appartenenza. In questa intervista racconta le sfide e le opportunità di una vita sempre in movimento, le amicizie e i cibi che l'hanno accompagnata lungo il percorso e le lezioni che spera di condividere con altri espatriati che stanno costruendo il proprio percorso.
Hai vissuto in così tanti Paesi diversi, dall'Italia all'Asia fino ai Caraibi. Ci riporti alla tua primissima esperienza da espatriata? Cosa ti ha spinta ad andare all'estero e in che modo ha influenzato il tuo modo di vedere le cose?
La mia prima esperienza da espatriata è stata a Tokyo, a 14 anni. Mi ero trasferita lì con la mia famiglia, quindi non mi occupai direttamente della logistica dello spostamento - trovare scuole, un medico o una casa. A quell'età, la mia sfida era semplicemente inserirmi in una nuova scuola, farmi degli amici ed esplorare un mondo completamente diverso.
La prima esperienza di espatrio, da sola, è arrivata più tardi, a Manchester, dove ho iniziato a lavorare. È lì che ho conosciuto il mio ex marito e insieme abbiamo intrapreso una vita fatta di continui spostamenti nel mondo. Ciò che mi spingeva all'estero era un mix di curiosità e opportunità: la voglia di imparare in contesti nuovi, incontrare persone di altre culture e continuare a scoprire ciò che la vita aveva da offrire.
Ho lasciato l'Italia a 7 anni e ho continuato a trasferirmi ogni 3–4 anni, quindi il cambiamento è diventato la mia normalità. Non ho mai avuto davvero la sensazione di “mettere radici” in un posto. Vivere da espatriata mi ha plasmata in modi che non immaginavo: mi ha insegnato ad adattarmi in fretta, ad ascoltare più di quanto parlassi e a capire che casa non è un solo luogo, ma quello che riesci a costruirti ovunque tu sia.
Ogni trasferimento porta con sé delle sfide. C'è stato un luogo in cui adattarsi è stato più difficile del previsto?
Il primo Paese in cui ho davvero faticato ad ambientarmi è stato la Cina. Ho vissuto in tre città diverse nell'arco di sei anni e ogni volta mi sono trovata davanti a nuove sfide. La Cina è un Paese straordinario e affascinante, ma viverci è molto diverso dal visitarla da turista. Oltre ad adattarmi alle norme culturali e alle dinamiche lavorative, ho dovuto fare i conti con il clima - in particolare con l'inquinamento. All'inizio riuscivo a gestirlo, ma una volta diventata mamma la salute dei miei figli è diventata la mia priorità assoluta, e lo smog costante è stato un peso difficile da sostenere.
Paradossalmente, però, l'adattamento più duro è stato quando sono tornata a Bruxelles dopo tanti anni in Asia. Pensavo che rientrare “a casa” in Europa sarebbe stato semplice, visto che lì avevo la famiglia. Invece, dopo gli anni trascorsi a Singapore, in Malesia e in Giappone, mi ero abituata al clima, al cibo e ai ritmi quotidiani dell'Asia. Tornata a Bruxelles, mi sono ritrovata improvvisamente con quattro stagioni da affrontare, un sistema scolastico completamente nuovo per i miei figli e la realtà di ricominciare da sola come madre single. È stato un altro tipo di shock culturale: non entrare nell'ignoto, ma riscoprire un luogo familiare con occhi completamente diversi.
Hai cresciuto i tuoi figli all'estero in diversi Paesi. Quali pensi siano i vantaggi e le difficoltà dell'allevare dei “third culture kids”?
Il dono più grande è stata la loro apertura mentale. Sono cresciuti rispettando altre culture, provando cibi che la maggior parte dei bambini avrebbe rifiutato e parlando più di una lingua. Sono diventati adattabili e resilienti - qualità che li accompagneranno per tutta la vita. Hanno anche preso la “smania di muoversi”! Oggi che sono giovani adulti parlano già di trasferirsi una volta terminati gli studi e di viaggiare per il mondo. Una vita sedentaria, per ora, non li attrae. Magari un giorno vorranno mettere radici, ma adesso stanno seguendo le mie orme.
La sfida più grande, naturalmente, sono stati i continui addii. Ogni trasferimento significava lasciare amici, abitudini e punti di riferimento. Da mamma, era doloroso vederli attraversare quei passaggi difficili. Allo stesso tempo, però, mi ha dato l'opportunità di insegnare loro ad affrontare il cambiamento, a elaborare ciò che si lasciavano alle spalle e ad accogliere ciò che arrivava dopo. Credo che queste lezioni resteranno con loro per sempre - e forse un giorno le trasmetteranno anche ai loro figli.
Come avete costruito, tu e la tua famiglia, un senso di appartenenza in ogni nuovo luogo in cui avete vissuto?
Per noi, il senso di appartenenza iniziava sempre da casa. Ho cercato di rendere la nostra abitazione, ovunque fossimo, uno spazio sicuro e familiare per i bambini. Poi veniva la scuola - fondamentale per permettere loro di integrarsi in fretta. Avere una rete di sostegno era altrettanto importante, soprattutto con le altre mamme. In ogni nuova città, una delle mie priorità era entrare in contatto con altre espatriate. Questi gruppi, formali o informali, sono diventati la nostra ancora di salvezza: ci incontravamo regolarmente con i bambini, ci sostenevamo a vicenda e colmavamo il vuoto lasciato dai mariti spesso assorbiti dal lavoro. Quelle amicizie ci hanno aiutato a superare la solitudine e ci hanno dato la forza di adattarci.
Anche il cibo ha avuto un ruolo enorme nel creare un senso di appartenenza. Imparare a cucinare piatti locali, andare agli hawker center a Singapore, assaggiare i ravioli in Cina o gustare l'asopao a Porto Rico - tutte esperienze che ci hanno radicato e fatto da ponte verso la cultura locale.
E naturalmente era essenziale esplorare la città e il Paese. Interagire con i residenti, comprenderne le tradizioni e rispettarne lo stile di vita ci ha permesso di integrarci in modo autentico. Ho sempre ricordato a me stessa, e insegnato ai miei figli, che eravamo ospiti nel loro Paese. Per me, sentirsi parte di un luogo ha sempre significato adattarsi con rispetto e apertura.
La tua autobiografia, Where the World Took Me, racchiude decenni di esperienze. Cosa ti ha spinta a trasformarle in un libro proprio adesso?
L'idea mi accompagnava da anni, ma pensavo sempre: chi mai vorrà leggere le mie storie? In un periodo più tranquillo ho iniziato a scrivere ricordi - quasi come un diario - e mi sono accorta di quanto mi desse gioia. Più scrivevo, più capivo che non erano soltanto le mie storie. Erano lezioni di resilienza, amicizia, cibo e bellezza delle diverse culture. Ho sentito il desiderio di condividerle con gli altri - espatriati che potevano riconoscersi, o lettori desiderosi di viaggiare attraverso le parole.
Come hai scelto quali esperienza inserire nel libro, considerando un percorso così ricco?
Non è stato facile! Ho scelto quelle che mi erano rimaste più impresse, i momenti che dopo anni riuscivo ancora a sentire, assaporare o rivivere. Alcune storie erano divertenti, altre dolorose, altre ancora toccanti - ma insieme restituivano un ritratto sincero della vita all'estero. Volevo anche un equilibrio: il cibo, le persone, la quotidianità, le difficoltà e le piccole gioie. Non desideravo che fosse solo un libro di viaggi: volevo raccontare l'esperienza umana di vivere tra culture diverse.
Nel tuo libro parli di cibo, amicizie e resilienza. C'è un ricordo culinario che ti riporta immediatamente a un Paese specifico?
Ce ne sarebbero tantissimi! Una ciotola fumante di ramen a Tokyo, o una colazione speziata in Malesia con dosa, cocco e patate… solo a scriverlo mi viene fame.
Ma il ricordo gastronomico che mi riporta subito indietro sono i ravioli cinesi di maiale alla piastra. Li rivedo ancora allineati nella padella fumante, il vapore che usciva mentre la base diventava dorata e croccante e la parte superiore restava morbida. L'odore da solo bastava a farmi venire l'acquolina in bocca - quel mix di pasta, maiale e olio di sesamo. E il primo morso? Magia pur. Succosi, saporiti, leggermente croccanti sotto e soffici sopra. Impossibile mangiarne uno solo. Quei ravioli non erano solo cibo, erano conforto: il sapore della Cina racchiuso in un piccolo boccone.
Le amicizie spesso giocano un ruolo fondamentale nell'esperienza da espatriati. Come sei riuscita a costruire legami forti essendo in continuo movimento?
Ho imparato ad aprirmi in fretta. Quando sei un'espatriata, non hai anni a disposizione per costruire lentamente un'amicizia - devi connetterti subito oppure perdi l'occasione. Alcune delle mie amicizie più profonde sono nate proprio da quei momenti intensi, vissuti insieme nell'affrontare una nuova cultura. Ho anche imparato a lasciar andare con eleganza. Nella vita da espatriati le persone vanno e vengono, ma questo non sminuisce il legame che hai avuto con loro. Alcuni amici fanno ancora parte della mia vita dopo decenni; altri li porto con me nel cuore.
Parli spesso di resilienza come filo conduttore della tua vita all'estero. Ricordi un momento in cui hai dovuto reinventarti in un nuovo Paese?
Il ritorno a Bruxelles, dopo il divorzio, è stato quel momento. Ho dovuto ricostruire tutto da zero: trovare una casa, aiutare i miei figli a imparare nuova lingua e a inserirsi in un nuovo sistema scolastico, e capire come sostenerci economicamente. È allora che ho deciso, insieme a mio fratello, di aprire una gelateria. Sapevo poco della gestione di un'attività del genere, ma mi ha dato uno scopo. Reinventarsi non è facile, ma è possibile quando ti muovono l'amore e la necessità.
Avendo vissuto in così tante culture, come si è evoluto il tuo senso di identità?
La mia identità è diventata un intreccio. Sono italiana nel profondo, ma anche influenzata dall'Asia, da Porto Rico e ora dal Belgio. Non sento più di appartenere del tutto a un luogo solo: porto con me frammenti di molte culture. Questo mi ha resa più empatica, più flessibile e meno legata a definizioni rigide di “casa”. La mia identità oggi riguarda più le persone e i valori, che la geografia.
Molti espatriati si riconosceranno in parte nel tuo percorso. Che consiglio puoi dare a chi sta per iniziare una vita all'estero?
Sii curioso, umile e paziente con te stesso. Sbaglierai, ti sentirai solo e ti mancherà casa. È normale. Ma ogni nuovo luogo ha qualcosa da insegnarti e, se resti aperto, guadagnerai più di quanto perderai. E ricorda che è normale avere giornate difficili. Non significa che stai fallendo; significa che sei umano.
Se dovessi condensare in poche parole il messaggio centrale della tua esperienza, rivolto agli espatriati e alle famiglie che vivono una vita in movimento, quale sarebbe?
Che siamo più forti di quanto pensiamo e che la gioia si trova nelle piccole cose - un pasto condiviso, un vicino gentile, una festa, un panorama dalla finestra. La vita all'estero non è sempre scintillante, ma è sempre arricchente. E anche quando ci si sente estranei, si stanno costruendo resilienza e ricordi che resteranno per sempre.
Ti senti pronta a fermarti in un luogo preciso o la spinta verso la vita all'estero è ancora forte?
Al momento mi sento ben radicata a Bruxelles: i miei figli sono diventati giovani adulti, la mia gelateria è qui e insieme abbiamo costruito una vita stabile. Eppure non riesco a ignorare quella sensazione familiare, quella vocina che mi dice che un cambiamento si avvicina. Sento il bisogno di spostarmi di nuovo, questa volta lontano dal caos della città.
Forse è l'età, o forse semplicemente il ritmo di una vita vissuta sempre in movimento, ma mi sorprendo a sognare l'oceano - un luogo più tranquillo lungo la costa portoghese, dove il tempo rallenta, lo stress svanisce e il suono delle onde genera pace.
Credo che lo spirito internazionale non ti abbandoni mai, una volta che l'hai vissuto. Diventa parte di te. Che io decida di trasferirmi ancora, o di portare semplicemente il mondo dentro di me, quello spirito guiderà sempre il mio modo di vivere.